Sosteneva De Chirico che occorre essere originari piuttosto che originali: invertire il vettore, dirigerlo verso il passato, a patto di non evocarlo in modi pigri e conformi. Scriveva nel saggio Noi metafisici: «Il nuovo pittore […] sa troppe cose. Sul suo cranio, nel suo cuore, simili a dischi sensibili di cera manosa, troppe cose hanno segnato impronte e richiami e ricordi e vaticini. […] Egli non riceve più impressioni, ma scopre, scopre continuamente nuovi aspetti e nuove spettralità». Come non ricollegare quel disco, pur evocato nella sua disarmante artigianalità, ai dischi ben più sofisticati di cui sarà dispensatrice l’era elettronica?
E come non ritrovare un’eco di quelle suggestioni nelle parole di Igor Imhoff, quando dice: «i miei lavori nascono da una ricerca sui segni primitivi e le pitture rupestri, considerate sia dal punto di vista simbolico e antropologico, sia come ricordi da combinare e da proporre come se fossero dei segnali. La conseguenza è un’indagine, quasi ossessiva, sul concetto di memoria e sull’alterazione dei supporti nei quali è registrata, che sia una grotta o un disco rigido».
Igor Imhoff è un raffinato sperimentatore, l’autore visionario di alcuni tra i più recenti e significativi cortometraggi sperimentali in grafica computerizzata; nella sua ricerca tende alla fusione di tecniche pittoriche, animazione, elaborazione fotografica e ricerca sul suono, tutto attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie che trovano espressione in una grande varietà di formati e generi: dalla videoarte all’animazione in grafica 3D anche per videogames, passando per il videomapping fino alla glitch art.
Ogni epoca ha elaborato un proprio modo di rappresentare e rappresentarsi nello spazio. La visione del mondo è sempre strettamente connessa all’impianto culturale di una società; Erwin Panofsky non a caso ha parlato di prospettiva come forma simbolica. Guardando all’oggi,il linguaggio che meglio riesce a esprimere l’anima della cultura contemporanea è il software. Il software è la nostra interfaccia con il mondo, con gli altri, con la nostra memoria e la nostra immaginazione. «Condivido – dice Imhoff – l’idea che il software sia una forma espressiva, probabilmente è l’unica forma per chi opera nel digitale. Il codice di programmazione è frutto dell’interpretazione della realtà, qualunque essa sia, del suo autore».
Questi sono i due estremi entro i quali si sviluppa la ricerca di Imhoff: da un lato il recupero laborioso dei ricordi dei dipinti rupestri, dall’altro la manipolazione degli algoritmi informatici. Una fusione di opposti che dà forma a uno scenario, come definito dallo stesso artista, rupestre-digitale, a un segno insieme primitivo e tecnologico.
Viviamo in un’epoca enormemente ricca di immagini accumulate, tanto che forse è inutile o impossibile arricchirla ulteriormente; meglio allora affrontarla a ritroso, navigando, proprio come fa Imhoff, in su e in giù lungo il fiume del tempo e della storia. Un avanzare per meandri, che assai di frequente è viceversa un indietreggiare; e infatti, davanti a certi a suoi lavori, è come ritrovarsi di fronte alla scena primaria, alla situazione fondativa dell’esperienza cinematografica, a un pre-cinema, a un’attualizzazione del mito della caverna che porta noi spettatori a riscoprirci allo stesso tempo bambini e primitivi.